Nella società odierna, tutto ciò che non produce, non funziona, non serve viene eliminato: oggetti, idee, vite. Ma cosa accade se rivolgiamo lo sguardo proprio verso ciò che è stato scartato? Cosa ci rivela lo scarto su noi stessi? Nella tradizione filosofica occidentale, l’essere è pieno, ordinato, razionale. Ma la modernità ha incrinato questa visione: l’essere si mostra fragile, plurale, frammentario. Il rifiuto è l’ente che si ritrae, che lascia spazio al vuoto. Lo scarto diventa testimone dell’essere, perché resiste alla logica dell’utilità e della prestazione. Esso ci interroga non per ciò che fa, ma per ciò che è. Guardare lo scarto significa interrogare il fondamento stesso del valore, e forse riconoscere un nuovo volto dell’essere: vulnerabile, eccentrico, irriducibile. Attraverso l’incontro con lo scarto non si Rifiuta la sua essenza, ma si opera una sua Azione. L’installazione è un invito a dislocare lo sguardo, a trovare senso nel margine, a sostituire la logica del potere con quella della fragilità. In un mondo che idolatra il centro, l’efficienza, il visibile, pensare lo scarto è un atto profondamente umano. Una bellezza che nasce nel disfacimento, un senso che si rivela nel resto, una verità che pulsa nell’inutile. Che cos’è uno scarto? È qualcosa che non serve più. Ma per chi? Secondo quale logica? Il mondo dell’industria e del mercato definisce lo scarto come errore di produzione. Lo scarto è sempre una soglia. Non appartiene più al ciclo produttivo, ma non è ancora sparito. È lì, sospeso, come una reliquia anonima. E proprio in questa sospensione si apre uno spazio artistico, dove il tempo rallenta e il significato può affiorare senza obbligo